STORIA VERA DI EYMERICH, IL MIO FANTA-INQUISITORE
di Valerio Evangelisti (da AVVENIMENTI n. 40 - 23 ottobre 1996)
Dall'uscita del film Pulp Fiction di Quentin Tarantino, settori di letteratura "colta" hanno cominciato
ad auspicare forme di commistione con la letteratura popolare, alla ricerca di succhi vitali che, ai piani alti, evidentemente non
circolano più. L'operazione che mi sta a cuore, da quando ho preso a scrivere le avventure di Nicolas Eymerich, è
l'esatto opposto. Senza evadere dalla narrativa "di genere", arricchirla di contenuti che generalmente non le vengono attribuiti, e che da un pezzo sembrano avere smesso di interessare gli scrittori dotati di pedigree.
Va detto che in questo tentativo non sono solo. Un romanzo poliziesco di Loriano Macchiavelli, di Carlo Lucarelli o di Nicoletta
Vallorani contiene più idee, spessore critico e capacità di riflessione di molte delle opere che, negli ultimi anni, hanno animato i dibattiti sulle pagine culturali dei quotidiani. Perché tutti costoro, e altri che potrei citare, non hanno nulla a che fare con il conformismo, il "buonismo" e il pensiero unico che stanno desertificando la letteratura nel nostro paese. Hanno la fortuna di ritrovarsi in un ghetto da cui le mode sono bandite e la libertà si respira con l'aria. Lo stesso ghetto a cui mi vanto di appartenere.
Ma veniamo a me. Dopo un buon numero di libri e saggi di storia che nessuno leggeva, e che venivano pubblicati solo in
virtù del meccanismo delle "adozioni" universitarie, mi imbatto in un volume di Italo Mereu, Storia dell'intolleranza in
Europa. Un nome in nota mi colpisce: Nicolas Eymerich, inquisitore trecentesco autore di un famoso trattato. Il mio pensiero non
corre, come qualcuno di tanto in tanto continua a scrivere, al Bernardo Gui de Il nome della rosa (libro che non mi sognerei mai di
tentare di imitare). Corre, da buon cultore di cinema fantastico, a Vincent Price, memorabile inquisitore in alcuni film britannici degli
anni Sessanta.
Scrivo quindi un horror, molto complesso e molto grossolano, in cui Eymerich, o per meglio dire il suo fantasma, è il
protagonista. Ma la storia è insoddisfacente, i personaggi appena abbozzati, la scrittura rudimentale. Soprattutto, non mi
trovo a mio agio con il soprannaturale. Fin da bambino, la mia passione è stata la fantascienza, poi abbandonata da adulto.
Misteri sì, dunque, ma con una spiegazione razionale, ricavata da teorie scientifiche o parascientifiche.
Accantono il mio romanzo ma non il personaggio. Nel frattempo conosco uno psicoterapeuta, Bruno
Caldironi, brillante esponente della scuola "psicosintetica". Ha scritto un saggio sulle diverse personalità e sulle loro
patologie. Mi avvince in particolare il capitolo sul tipo psicologico "schizoide", in cui riconosco molte peculiarità del mio
carattere. Ecco, adesso Eymerich non è più solo un nome. D'ora in poi avrà anche un corpo e, soprattutto,
un'anima. Nerissima.
Mi metto a scrivere Le catene di Eymerich, prima apparizione ufficiale dell'inquisitore. E' un romanzo
grosso modo di fantascienza, ma che attinge anche da altri filoni della letteratura popolare: horror, poliziesco, thriller puro e semplice.
Ambiento la storia principale nel medioevo, che però non è quello realistico di Eco, e nemmeno quello reinventato del
genere fantasy. Sì, i dettagli storici sono tanto curati da rendere credibile lo scenario, ma all'interno di quest'ultimo si
muovono mostri e incubi chiamati a vita altrettanto reale, e tratti di peso da quello che poteva essere l'universo fantastico di un
inquisitore ossessionato dalla presenza aleggiante del demonio.
La mia ossessione personale è invece quella di riuscire a scrivere un romanzo che il lettore, una volta iniziato, non possa
più lasciare. Riprendo in mano libri che avevano avuto su di me lo stesso effetto e cerco di sviscerarne i meccanismi. Mi
accorgo dell'efficacia che ha l'alternanza di storie diverse, convergenti verso uno stesso epilogo: lungi dallo spezzare l'attenzione la
attizzano, sempre che siano scritte con efficacia. L'esito è una suspense ai limiti del tollerabile. Adotto questi e altri
procedimenti (vogliamo chiamarli trucchi del mestiere?), ma con qualcosa in più. Userò le storie intercalate a quella
principale per descrivere aspetti del presente che suscitano il mio orrore. Così, ne Le catene, inserisco vicende ambientate nel
Guatemala, in Romania, tra i naziskin (che non avevano ancora conquistato l'attenzione della grande stampa).
Il procedimento tipico è quello del capitolo sul Guatemala. Nell'ambito di una trama di pura invenzione, riguardante il traffico
d'organi (neanche di questo, all'epoca, si parlava ancora), colloco luoghi e date di massacri di indios commessi dall'esercito
guatemalteco, traendoli da un opuscolo di controinformazione scritto da sacerdoti messicani. Anche i nomi degli aguzzini sono veri.
Idem per la Romania, per cui mi baso su un'inchiesta di "Avvenimenti", e per i naziskin.
Tutto ciò resta però collaterale. Il centro della scena è interamente occupato da Nicolas Eymerich, duro,
ombroso, determinato fino alla crudeltà, perfido senza mai essere meschino. Uno sgradevole idealista, capace di ricorrere a
ogni mezzo pur di compiere quello che crede il suo dovere. Tutto viene visto attraverso i suoi occhi e filtrato attraverso i suoi
pensieri. Così il lettore finisce, suo malgrado, per simpatizzare con questa figura così scostante, senza capire bene
come sia potuto succedere.
Lo stesso avviene all'autore. Vincenzo Cerami sostiene che si può e si deve scrivere anche senza ispirazione. Personalmente
non sono d'accordo. Scrivo le avventure di Eymerich in una sorta di invasamento, in cui non so bene se sono io che controllo lui o
lui che controlla me. Nei momenti in cui l'ispirazione cade, mi dedico alla revisione di quanto già scritto e dei dettagli
secondari.
Ma conviene che concluda la mia storia. Spedisco Le catene al Premio Urania, appena istituito. I giurati
mi riempiono di lodi, ma affermano che non si tratta di fantascienza "pura". Lascio passare un anno, poi scrivo Il corpo e il sangue di
Eymerich e lo mando di nuovo al Premio Urania. Il giudizio è il solito: troppo poco fantascientifico. Non mi scoraggio e
tento l'anno dopo con Nicolas Eymerich, inquisitore. Questa volta ho inserito nella vicenda astronavi e pianeti misteriosi. Vinco
finalmente il premio e il romanzo viene pubblicato.
La mia odissea finirebbe qui se alla direzione della sezione Libri Periodici della Mondadori non
giungesse un nuovo manager, Stefano Magagnoli. Questi controlla i dati delle vendite di Urania e si
accorge di un dettaglio che era sfuggito a tutti: Nicolas Eymerich, inquisitore ha venduto, durante l'anno, più di ogni altro
titolo, inclusi quelli dei più affermati autori anglosassoni. Non era mai successo a nessuno scrittore italiano di fantascienza.
Da quel momento il cammino è in discesa.
Non so se i miei romanzi possano piacere a tutti. La loro confezione ha poco a che vedere con la creazione artistica, e molto col
lavoro artigianale della narrativa popolare. Ma forse è proprio questo che è sempre mancato in Italia: una letteratura
"di genere" pienamente consapevole sia dei suoi limiti che delle sue potenzialità.
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